6 giugno 2020 - 13:23

«Non siamo spie»: appello per Fariba e gli altri ricercatori perseguitati in Iran

Lettera aperta di Roland Marchal arrestato un anno fa a Teheran insieme alla collega franco-iraniana Fariba Adelkhah. Dopo oltre 9 mesi di carcere e senza processo, lui è stato liberato ed è tornato in Francia. Lei invece è stata condannata a 6 anni di reclusione

di Roland Marchal

«Non siamo spie»: appello per Fariba e gli altri ricercatori perseguitati in Iran
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Fariba Adelkhah, nata nel 1959 in Iran e con doppia nazionalità franco-iraniana, detenuta dal 5 giugno 2019, è appena stata condannata a sei anni di prigione. Come lei, circa una ventina di universitari, quasi tutti con doppia nazionalità, sono attualmente imprigionati in Iran, anche loro per motivi essenzialmente politici. Senza menzionare quelli detenuti in altri paesi del Golfo, in Egitto, in Cina…

Il caso di Fariba Adelkhah è esemplare per diverse ragioni. Antropologa e accademica presso Sciences Po, scrive sul suo paese da più di trent’anni e aveva già dovuto affrontare più volte degli interrogatori in Iran. Eppure, come la maggior parte dei suoi colleghi attualmente in prigione, è solo a partire dallo scorso anno che è in custodia cautelare e che delle gravi accuse sono state sollevate contro di lei. Questo cambio, contemporaneo agli effetti catastrofici delle sanzioni americane sulla popolazione ancor più che sul regime iraniano, solleva delle domande importanti. Da un lato, sulla vulnerabilità giuridica degli universitari che cercano di fare il loro mestiere in questo paese. Dall’altro, sul sistema giudiziario iraniano e la sua crescente sottomissione ai Guardiani della Rivoluzione, che rafforza la sua arbitrarietà e la sua polarizzazione. Indipendentemente dalle circostanze particolari di ogni arresto, l’attuale repressione contro gli universitari, e soprattutto contro Fariba, sottolinea come il controllo dell’informazione e l’indebolimento delle relazioni universitarie e intellettuali con i Paesi europei e democratici sia diventata una delle priorità di certi settori del regime, in un periodo in cui le attese della società iraniana si radicalizzano e le alleanze geopolitiche mostrano i loro limiti.

In un contesto simile, quali sono le risposte che possono venire dal mondo universitario che, per definizione, non aspira ad alcun potere e che è ben determinato a lasciare che gli attori politici e sociali prendano da soli le loro decisioni? Una prima ipotesi è offerta dalla posizione di Fariba Adelkhah, che si rifiuta di accettare qualunque accordo che non le riconosca il suo status di universitaria con la doppia nazionalità, iraniana e francese. Fariba vuole riprendere i suoi appunti e il suo computer, simboli di una identità professionale che i Guardiani della Rivoluzione le voglio togliere. Vuole essere quello che è sempre stata: profondamente iraniana, ma anche francese. Il prezzo di una simile scelta è molto alto. Ormai non ha più nessuna speranza in un processo d’appello ed è convinta che resterà in carcere. Lei vede in questa scelta il prezzo da pagare per non perdere il suo onore di donna e di ricercatrice, né tantomeno la fiducia di tutti quelli che l’hanno affiancata o hanno lavorato con lei, soprattutto in Iran e Afghanistan. Un’altra ipotesi potrebbe essere quella di indurre una parte dei servizi segreti e di sicurezza iraniani (e di molti altri Paesi) a non considerare più a priori i ricercatori come delle potenziali spie, che un semplice cambio politico trasformerebbe in agenti attivi. L’ideale sarebbe definire a livello internazionale dei diritti specifici per gli universitari come già esistono, pur non essendo necessariamente codificati, per i giornalisti.

Per questa ragione, i Guardiani della Rivoluzione e i loro omologhi in altri Paesi dovrebbero smettere di imprigionare in via preventiva gli universitari per costruire, solo in seguito, la loro ipotesi accusatoria o, in caso non ci riescano, per ritenere che, dopo una lunga detenzione, quegli stessi ricercatori non possano più semplicemente essere rilasciati senza conseguenze. Non si tratta tanto di proteggere una categorìa, ma piuttosto di lavorare ad un cambiamento di approccio, di promuovere strategie di inchiesta meno ossidionali, confidando che questi cambiamenti aiuterebbero rapidamente tutti i nostri colleghi iraniani troppo sovente malmenati dai loro concittadini, quando il fine ultimo in Iran e altrove dovrebbe essere la garanzia universale dei diritti costituzionali. Per andare in questa direzione, in un momento in cui le classi dirigenti iraniane sono paralizzate dai rischi di destabilizzazione e dalle sanzioni, è necessario un interlocutore internazionale esigente e credibile. L’Unione Europea o una coalizione di Paesi europei potrebbe assumere questo ruolo? Fino ad oggi non è successo.

Recluso per nove mesi e mezzo nella prigione di Evin, so quanto devo essere riconoscente a Emmanuel Macron e alla diplomazia francese per la mia liberazione. Dopo il mio ritorno in Francia, grazie alle conversazioni con i parenti dei miei colleghi ancora detenuti, so anche che diversi Paesi, che rappresentano agli occhi dei miei antichi carcerieri l’«Occidente», non condividono la posizione francese e restano indifferenti a questo tipo di arresti, concentrandosi su altri aspetti ritenuti più strategici. La retorica guerriera provocata dalle sanzioni ha dimostrato i loro limiti, suggerendo che bisognerebbe al contrario rilanciare una diplomazia realista cosciente del passato e incentrata sul dialogo e sulla costruzione della fiducia. Una simile iniziativa provocherebbe inevitabilmente delle reazioni non solo in Iran, ma anche in Europa, considerando a che punto la confusione tra gli interessi nazionali e le alleanze regionali può rendere rischiosa anche una scelta coerente. Per me, semplice cittadino e ricercatore, esiste una prova inconfutabile della validità di questa teoria. Nove mesi e mezzo della mia vita mi sono stati rubati da un sistema profondamente ingiusto. Fariba Adelkhah ha già passato un anno della sua vita in circostanze ancora più difficili, privata di tutto quello che le è caro, e la sua reclusione sembra destinata a durare. Non siamo le sole vittime di questa situazione. Perché allora permettere che continui?

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